di Stefano Cobianchi
Nella nostra psiche, ansia e Covid sono due “attivatori” che poggiano entrambi sopra un comune denominatore: la paura di un limite imposto. Come l’ansia è l’immagine della paura di avere un limite sul controllo sugli eventi a venire, così il Covid è l’immagine della paura di avere un limite anche sul controllo dei progetti della nostra vita e del nostro lavoro, sulla libertà di fare ciò che vogliamo, su noi stessi e i nostri cari. Questa paura si concretizza come paura della morte come limite ultimo imposto al potere della nostra coscienza. Perciò così come l’ansia è il limite simbolico che nel sintomo stesso ci tiene bloccati e non ci permette di muoverci e respirare liberamente, e l’attacco di panico è la sua più grave minaccia di morte, così allo stesso modo il Covid è il limite ansiogeno imposto dalla natura all’uomo, che ci costringe a casa con la febbre e allo stesso modo non ci permette di respirare minacciandoci di morte. E il lockdown è il limite che ci è imposto dal nostro governo e dalla società in cui viviamo, limite che non ci permette di muoverci come vorremmo, dove l’obbligo di portare la mascherina simboleggia l’obbligo autoimposto di porre un freno al respiro per difenderci dalla minaccia di contagio e morte.
Ma cos’è questa minaccia? Cosa significa simbolicamente? Perché la natura, la società, tutti noi d’improvviso ci ritroviamo a dover soffrire la paura di questo limite imposto alla nostra vita di sempre?
La famosa battuta dell’Amleto di Shakespeare viene pronunciata dal principe Amleto nella tragedia all’inizio del suo soliloquio. È una delle frasi più celebri della letteratura di tutti i tempi, come forse l’ansia è il disturbo psicologico più diffuso di sempre. La riflessione di Amleto pone una scelta: l’interrogativo esistenziale del vivere soffrendo (l’ “essere”) o ribellarsi rischiando di morire (il “non essere”) è alla radice dell’indecisione che impedisce al principe di agire, indisturbato, come vorrebbe. Rileggendo la riflessione di Amleto (trovate qui il bellissimo passo) abbiamo l’impressione di centrare il nucleo del conflitto psichico sottostante a tutta questa situazione: il «dubbio amletico» è il conflitto tra la parte eroica di noi stessi, diremmo l’io come parte “principesca” e cosciente, e i desideri più profondi del nostro mondo interiore e inconscio. Allora la paura della morte è simbolicamente la paura dell’io di “non essere” cosciente, cioè di non poter essere il principe che vorrebbe tra tutte le altre sue parti psichiche interne. Se è vero che noi scegliamo di voler “essere” ciò che vogliamo, nella nostra vita noi possiamo esserlo soltanto entro i limiti e i rischi che ci sono imposti dalla natura, e che noi rimuoviamo per non affrontarli. Come dice Amleto, vivere senza “ribellarsi” a questi limiti che ci minacciano di non poter “essere” ciò che vogliamo, però, genera un’esistenza nella “sofferenza”, e l’ansia è qui una forma frequente di essa. La sofferenza che si vive nell’ansia è autoimposta, perché generata dalla paura stessa di ribellarci di fronte ad ogni prova e pericolo, e di morire come coscienza, cioè di far morire i nostri ideali di “essere” senza problemi, e di sentirci impotenti di fronte alle tragedie della nostra vita, di perdere il controllo sugli eventi e sulle persone: il pericolo di “non essere” chi vorremmo.
Nella pandemia come nel disturbo di ansia e panico, questo conflitto rappresenta perciò il limite che la nostra stessa coscienza impone alla nostra vita inconscia: quello di non voler stare in un mondo che non possiamo controllare, il nostro mondo interiore come quello là fuori. E il Covid è per la nostra coscienza la minaccia invisibile di “morte”, che tutt’a un tratto si è materializzata, come se simbolicamente rappresentasse tutta l’ansia repressa di tutto il mondo.
nell’incertezza. La vita è incerta, la natura è incerta, tutto puo’ sempre cambiare come il meteo cambia anche nonostante le nostre previsioni. Qui non si parla di resistenza al cambiamento o resilienza, anzi tutt’altro: nonostante la resilienza venga spesso nominata come capacità evolutiva importante, essa risulta essere l’opposto di una capacità evolutiva, quale è invece l’accoglienza del cambiamento, o, per dirla con un termine coniato da un grande filosofo ed economista di questi tempi, Nassim Nicholas Taleb, l’”antifragilità” o capacità di prosperare nel cambiamento. Come ogni cambiamento, la pandemìa è foriera di opportunità, ed è in questa prospettiva che riusciamo a trasformare l’ansia e la paura in nuove risorse, che fermandoci alla loro prospettiva invece non vediamo.
in risorsa?

paura e anche rabbia, sentimenti con i quali oggi, in una situazione di rischio globale, ogni individuo è chiamato a confrontarsi.
Questo perché quando qualcosa di traumatico accade e viene percepito come un limite imposto dalla natura, inevitabilmente si riattivano in noi quei traumi primari e complessi relazionali, registrati nella memoria implicita, che in base alla loro entità possono mettere in campo le nostre risorse oppure impedire che esse si manifestino.
con noi stessi, con i nostri limiti, con le nostre sofferenze, con la nostra vera natura. E di guardare dentro ai nostri problemi per capirne l’origine, l’entità, la possibilità di scioglimento. C’è chi è più pronto a farlo e non fatica troppo durante questo “allenamento” all’imprevedibilità del destino. C’è chi dopotutto già ne trae giovamento, rivedendo tutta l’organizzazione della propria giornata, passando più tempo coltivando i propri interessi, i propri piaceri, i propri amori e affetti. Ma molti di noi sono davvero alienati da sé stessi, non sono abituati a confrontarsi con la propria interiorità e a tollerare i piccole e grandi limiti e debolezze di cui ognuno di noi è portatore sano.
alla quarantena, lasciare che il dolore venga e prenda il posto che è opportuno che occupi in risposta a una situazione in cui non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia, nel momento in cui riusciamo a farlo, se non ci spaventiamo troppo per quel dolore, allora poi possiamo raggiungere uno stato di sollievo e di
liberazione.
La causa della nostra ansia siamo noi stessi, non il Covid
Uno dei più grandi autoinganni che ci facciamo, è quello di pensare che noi siamo giusti e gli altri sbagliati. Che la causa del nostro fastidio sia fuori di noi, negli altri e in quello che ci dicono e ci fanno. I politici. I medici. I negazionisti. Quelli che non seguono i protocolli ASL. I commercianti e i ristoratori. Quelli che seguono ogni regola che gli viene imposta. Chi più ne ha più ne metta.
Siamo davvero crudeli con noi stessi, nella misura in cui ci priviamo dell’apertura all’altro e dell’accettazione del suo punto di vista, dei suoi motivi, dei suoi dubbi, delle sue paure e dei suoi bisogni. Facciamo presto a dire “io ho ragione, tu hai torto”. Dicendo “è colpa tua” noi ci infliggiamo un male ben più grande del peso di dover ascoltare e guardarci con i suoi occhi: quello di voler “essere” e di restare la nostra ansia, con la nostra paura, con le nostre proiezioni. Per colpa dell’altro, come del Covid, ci tocca ammalarci, fermarci con noi stessi, sbagliarci nei nostri programmi. Ci tocca fermarci e collaborare con altri che non conosciamo. Ci tocca cambiare vita, perdere il controllo su di essa, ci tocca non poter fare ciò che vogliamo. Cambiare, metterci alla prova, vivere nel pericolo di far male… che ansia! Come fare?
L’ansia è come una sedia sulla quale, seduti, ci dondoliamo: ci sembra di stare sempre in movimento, ma non avanziamo mai di un passo. Solo chi sta seduto non cade mai, ed è solo questo che abbiamo imparato. E allora la colpa diventa di chi ci toglie la sedia e ci spinge ad alzarci e ad andare avanti, magari con le sue battute che ci vogliono far pensare, con le sue idee e i punti di vista diversi che crediamo sbagliati e ci mettono in discussione. L’ansia è il movimento che resta seduto, che si carica ma non va in nessun luogo, è l’energia introversa nel corpo: non la utilizziamo per fare, ma per immaginare di farlo. E immaginiamo di farlo male. Che è troppo difficile per essere sicuri di non sbagliare. Per questo restiamo lì con essa seduti. Ma il pericolo siamo noi, la colpa è la nostra incapacità di alzarci e imparare a cambiare. Abbiamo scelto noi di non provarci. E dondoliamo avanti e indietro nelle nostre routines della vita che ci siamo scelti per restare seduti senza accettare che non abbiamo un limite imposto sul potere nella nostra vita, e che essa è bella proprio per questo.
[ Se vuoi conoscere meglio i sintomi di ansia e panico e come trattarli, leggi l’approfondimento qui ]

Stare in casa: un invito a ritrovare la vera bellezza
Siamo costretti a stare in quarantena e ci sentiamo costretti, tutto ci sembra uguale e brutto, il luogo in cui viviamo ci sembra una prigione di sofferenza e limitazione. Vorremmo stare con le persone, vorremmo stare nei giardini e nei parchi, nei locali e nelle palestre. In realtà ci manca un luogo “diverso” dal “nostro”, cioè da quello più intimo, dove tutto ciò che prima vedevamo come importante o necessario alla nostra vita “perfetta” adesso fatichiamo a ritrovarlo nella nostra casa e nel quartiere dove abitiamo.
Ma perché tutto questo malessere per lo stare nel luogo che dovrebbe essere quello del nostro benessere, del riposo, della realizzazione dei nostri bisogni? D’altronde la nostra casa non è il luogo dove noi stessi abbiamo scelto per abitare, per “stare” con noi stessi?
Forse perché abbiamo perso il senso del contatto con la nostra anima, anzi lo temiamo e lo fuggiamo durante il giorno, che fatichiamo a ritrovare piacere e bellezza nello “stare” nei luoghi che abitiamo e delle cose che ci circondano.
Lo so, sembrano solo belle parole, troppo semplici per spiegare l’ansia che viviamo e il malessere generale di oggi, che è sicuramente legato a dinamiche più profonde. Eppure, nell’ansia di voler continuare a fare qualcosa per non sentirci in ansia, proviamo a fermiamoci un momento e a guardare ciò che abbiamo intorno adesso con occhi diversi. Proviamo a “cambiare occhio”, a osservare la nostra casa e a “sentirla” non solo con lo sguardo, ma con tutto il corpo. Proviamo a osservare gli oggetti della nostra casa e i dintorni del nostro quartiere con un’attenzione nuova, più profonda, più vicina al loro reale valore, al loro significato soggettivo e collettivo. Smettiamo un attimo di pensare al “dovere” e ai “devo”, cerchiamo di non guardare con gli occhi di sempre, quelli che vedono solo routines e obblighi morali, ma proviamo a riaccendere il nostro corpo e ricongiungerlo a ciò che sente.
Siamo stanchi?. Riposiamo. Non riusciamo a pensare ad altro che al Covid? Spegniamo tutto, cellulari e televisori. Abbiamo bisogno di muoverci, di prendere aria? Usciamo di casa e andiamo in un parco o in una parte del quartiere che non conosciamo, dove di solito non passiamo. Proviamo a fare “altro”, ma non “altro” a caso: proviamo davvero ad ascoltarci e a ritrovare i nostri bisogni aldilà del nostro senso del dovere. Facciamoci noi stessi i regali che vorremo. Andiamo a vedere ciò che ci incuriosisce. Chiamiamo i nostri amici o parenti che non possiamo vedere da lì dove siamo, condividiamo con loro le nostre esperienze. Loro possono essere ovunque noi siamo, sempre, e le distanze fisiche non hanno nulla a che fare con la loro vera vicinanza.
Proviamo a guardare alla bellezza della città, del paese in cui viviamo, dei dintorni della nostra casa: la nostra polis (“città” in greco). Facciamo quella che James Hillman chiama “Politica della bellezza”. La città è metafora della nostra casa, laddove questa è il luogo abitato dalla nostra anima.
Nell’omonimo libro, James Hillman esorta a recuperare l’attenzione alla bellezza nella città (e quindi anche nella casa, nel luogo abitato), quella bellezza curativa che puo’ incidere sulla qualità della vita delle persone in senso profondo, molto al di là degli aspetti esteriori e decorativi.
Hillman non parla di bellezza in senso edonistico, ma in senso affettivo e animico: dobbiamo porre l’attenzione alla bellezza naturale delle cose, quella bellezza in grado di incidere in profondità sulla psiche individuale e collettiva, e che riguarda il nostro modo di vivere e di stare al mondo.
Per Hillman, infatti, il mondo moderno vive sempre più una fame di bellezza, cercandola però nell’aspetto edonistico esteriore, che non porta al benessere né ad alcuna vera soddisfazione. La bellezza ha a che fare con l’anima nostra come con quella del mondo, e si rifà a quel bello direttamente legato all’armonia del nostro mondo interiore e alo stesso tempo del mpondo in cui viviamo, riguardando un bisogno affettivo essenziale dell’essere umano, indispensabile al suo equilibrio e sviluppo psicologico e sociale.
È il nostro senso del bello a portarci fuori di noi, a renderci attivi socialmente e personalmente, invece che a chiuderci in noi stessi, nell’ansia dell’essere chi vogliamo ma del non-essere chi veramente siamo. Il senso del bello ricopre infatti di libido il mondo oltre noi stessi, rendendolo il luogo dove la nostra anima vuole transitare. La bellezza del luogo in cui viviamo è perciò il primo aspetto da curare se vogliamo essere cittadini più felici e vivere in una città e in una casa più efficiente, ma anche avere un comportamento più incline al sostegno reciproco, alla convivenza pacifica e al benessere interiore.
Per Hillman è importante che nel luogo in cui viviamo ci siano cose fatte a mano, qualcosa che sia creato e fisicamente forgiato da noi stessi, e che con ciò sia immagine del nostro essere e risuoni positivamente con esso. L’arte, la pittura, l’architettura sostenibile, ma anche tutte le cose che viviamo quotidianamente devono poter stare in armonia con la nostra psiche, in modo che noi possiamo sentirci collegati ad esse, sentirle “animate” cioè sentire la loro anima e risuonare positivamente con esse. Le immagini di cui abbiamo bisogno non sono soltanto un mucchio di oggetti “inanimati”, cioè senza anima, ma cose e luoghi che abbiano un significato concreto per le persone, come i manufatti o i luoghi naturali. Fare cose fatte a mano, come dipingere, suonare, arredare, ristrutturare la nostra casa, sono tutte attività che possono acquisire per noi un significato profondo e un elevato effetto terapeutico, perché tutto ciò che facciamo con l’ambiente in cui viviamo è lo specchio di noi stessi, l’immagine dove noi ci ritroviamo e ci ri-conosciamo.
Il luogo in cui abitiamo è la nostra anima e la nostra anima cambia in base al nostro stare al mondo, al porsi in relazione con esso.
Perché noi siamo quel luogo che abitiamo, noi siamo fatti dalle percezioni fisiche concrete di quel luogo e di ciò che oltre a noi lo abita, e che si imprime nella nostra memoria e nell’agire quotidiano. Con la nostra presenza e il nostro modo di agire in un luogo, di osservarlo e di usarlo, noi cambiamo il modo stesso in cui viviamo. Così come la bellezza (o non bellezza) fuori di me trasforma chi io sono e come sono, il mio essere profondo e il mio stare al mondo.
Adesso provate, ad esempio, ad andare in terrazza e a osservare le vostre piante, o se non ne avete, a osservare comunque l’anima degli oggetti della vostra casa, ad esempio le venature del legno dei mobili, la forma e il colore del quadro che avete appeso al muro, gli odori delle stanze, le tonalità delle pareti, e così via. Provate anche a fare esperienza diretta con ciò che cattura la vostra attenzione o che vi provoca una reazione di piacere. Ad esempio, provate a ridipingere di bianco (colore curativo dell’albedo alchemica) le pareti sporche, provate a scrivere quelle storie o quelle poesie (attività già di per sé molto terapeutica) che non avete mai avuto il coraggio o il tempo di scrivere, provate in genere a cimentarvi in qualsiasi attività che vi dia piacere e che metta alla prova le vostre capacità e i vostri desideri: provate anche solamente ad andare in bagno e a far scorrere l’acqua nella vasca, a cambiarne il flusso e la temperatura scegliendo di fare un bagno rilassante in immergere tutto il corpo e sentirvi abbracciati dall’acqua, invece che la solita doccia veloce senza significato.
Immergetevi dentro ciò che osservate, cercate l’anima delle cose che vi circondano. Vi stupirà ciò che potreste vedere e imparare sulla bellezza della polis in cui già vivete. Consideratelo il primo esercizio, quello quotidiano, di riabilitazione dall’ansia. Godetevi la vita reale, quella che potete avere ogni momento e che già intorno a voi avete, senza pensare a ciò che sarebbe potuto essere diversamente, né a ciò che avreste voluto che fosse e, a causa del Covid, non puo’ essere. La polis siete voi. Re-immaginatela così come vi fa stare bene. e ricreatela intorno a voi stessi-
