vederlo come il portatore di una malattia da cui potremmo essere contagiati. Sentiamo il bisogno del contatto, ma allo stesso tempo ci fa paura. Cosa rappresenta quindi per noi l’altro in questa sua ambiguità?
Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?
Emanuele Severino (1)

È incredibile come la natura riesca a conservare le stesse forme archetipiche in ogni parte dell’universo. La forma biologica del Coronavirus è alquanto familiare: è anzitutto una sfera, dalla quale emergono numerosi punti di contatto in ogni direzione, come se fosse un “centro” di contatto del mondo. La funzione del virus si rivela quella di contagiare cioè “contattare” alcuni individui per trasmettersi tra di essi e manifestarsi. Jung (3) scrive che, secondo un’antica tradizione, anche l’anima avrebbe una forma sferica, e le sfere di luce visibili nell’aria sono generalmente considerate anime nelle parti più diverse del mondo. Jung ci dice anche che il cerchio o la sfera, come la quaternità, sono forme della totalità e dell’unità, e rappresentano contenuti e funzioni inconsce che si trovano ancora al di là della coscienza, in un tertium non datur che non possiamo altrimenti rappresentarci. Quel “soffio di vita”, dall’etimologia di anima, che il Coronavirus trasporta, è simbolizzato da questa sfera fluttuante, che in alchimia puo’ essere paragonato al lapis o pietra filosofale: una sostanza catalizzatrice capace di risanare la corruzione della psiche e panacea per qualsiasi malattia. Nelle immagini ricostruite al microscopio elettronico, il Coronavirus appare al centro di color rosso proprio come il lapis, che indica sangue e affettività, la reazione fisiologica che unisce il corpo allo spirito: la capacità di sintesi tra questi due opposti è definita proprio dal terzo elemento, l’anima come ligamento corporalis ed spiritus (4).
L’etimologia della parola virus si ricollega alla radice indoeuropea vis- che significa “essere attivo”, “essere aggressivo”; da questa radice, poi derivò il sanscrito vis-âs ed il latino virus che significano entrambi “veleno”. Ma vis in latino significa “forza” ed è anche uno dei sinonimi di “anima”, qui per estensione intesa come soffio vitale e principio motore della vita, perciò come sua forza motrice: “l’anima dell’universo non ha raggione di principio ma di causa”, scriveva Giordano Bruno, ricordandoci che l’anima stessa è il motore di tutte le cose. Nella psicologia archetipica, la nozione di anima è posta da James Hillman come principio primo e complementare a tutti i principi tradizionalmente inclusi nelle prospettive del corpo (materia, natura, mondo empirico) e della mente (spirito, logica, idea) (5). Abbiamo dimenticato che la prospettiva animica è stata descritta, da Plotino fino a Jung, come “esse in anima” (6), per cui non è l’anima che sta dentro il corpo, ma è il corpo che sta dentro l’anima, che si trova ubiquitosamente in ogni luogo. È questa la posizione del mundus imaginalis di Corbin e di quei neoplatonici che hanno scritto sugli intermediari e sulle figure del metaxy platonico. “Corpo, anima, spirito: quest’antropologia tripartita è un elemento di separazione della psicologia archetipica dalla consueta divisione dualistica cartesiana, le cui conseguenze si fanno ancora sentire nel fatto che la psiche, intesa come anima, da allora è diventata indistinguibile per un verso dalla vita corporea e per un altro dalla vita dello spirito. Nella tradizione dualistica la psiche non ha mai avuto il suo proprio logos, nè quindi poteva esserci una vera psicologia” (7).
La diffusione della polmonite atipica, causata dal Coronavirus, in una persona non malata avviene solitamente attraverso le goccioline di aerosol emesse da un contagiato, in occasione di starnuti, colpi di tosse o quando si parla, oppure attraverso il contatto con una superficie contaminata. In ogni caso, per
ammalarsi è indispensabile che la parte del corpo esposta entri successivamente in contatto con le mucose del naso e della bocca. Possiamo pertanto vedere questo virus come una forza o una causa agente dell’anima, con il suo movimento nel corpo attraverso la sua funzione vitale, e nel parlare. Nel polmone, l’anima “contatta” l’uomo e, durante il parlare, si fa causa di contagio e dell’ammalarsi del suo stesso principale organo vitale, diventandone con ciò l’oggetto simbolico e il mezzo delle sue cure.
Nell’era del sovraccarico informativo e della iperconnessione, abbiamo perso la comunicazione con l’anima, archetipo della vita stessa, nonché il contatto con la natura e la forza vitale del mondo. Ed è proprio di un problema di “contatto” e di distanze che ci parlano oggi le televisioni.

Una nuova coscienza
Il nome che è stato scelto dagli scienziati per identificare quest’agente virale invisibile, è Corona. Precisamente, il nome biologico dei Coronavirus è Orthocoronavirinae, descritta come una sottofamiglia della Coronaviridae. “Corona” in latino si riferisce a tutto ciò che è piegato o curvo, e deriva dal greco κορώνη (korṓnē, “ghirlanda”), che indica la corona di fiori che orna il capo e allo stesso tempo l’aureola come cerchio luminoso. In età classica, l’aureola era una corona dorata luminosa che circondava il capo delle divinità gentili che discendevano da Giove (Zeus). Rappresentava l’origine divina degli imperatori romani, e indicava i santi nell’iconografia cristiana, cioè quel grado di gloria e divinità che li contraddistingueva nel cielo. La corona osservata dai biologi si riferisce in prima istanza all’aspetto caratteristico delle virinae (precisamente la forma infettiva del virus) che fu inizialmente visibile al microscopio elettronico: una serie di glicoproteine superficiali che appaiono di un colore dal giallo al rosso e che rimanda a una corona reale o solare. Nel nome assegnato al virus c’è anche il prefisso ὀρϑός “retto” o “corretto”, a suggerire una forza giusta come quella di Zeus. Che questa corona fosse il vestigio di un potere attribuito al padre degli déi, lo suggerisce il fatto che la radice del nome Zeus significasse “il portatore di luce”, perché il dio rappresentava un nuovo ordine divino: secondo Giorgio Antonelli e rileggendo la Teogonia di Eschilo, Zeus è “colui che dà il significato alla vita”.
Il simbolo costellatosi agli occhi dei biologi, guardando sullo schermo del microscopio, dev’essere stato proprio quello di una particella divina: una corona solare che, come scrive Jung (9), richiama all’antico dio Sole egizio. L’associazione del sole e del vento ricorre frequentemente nel simbolismo antico, con il significato archetipico del vento soccorrevole e pneumatico che soffia dal dio Sole nell’anima e la feconda. Hermes stesso, figlio di Zeus, era personificazione del vento e portava i messaggi del padre per il mondo, attraversando l’aria, come l’anima, sia in senso orizzontale che verticale. Egli portava il caduceo, il bastone sacro e suo scettro, raffigurato con due serpenti piegati a spirale, rappresentazione del bene e del male degli uomini, tenuti in equilibrio dal dio. Tale bastone era infatti la manifestazione fisica dell’equilibrio che doveva esserci in tutte le cose, e aveva anche una valenza morale, poiché rappresentava la condotta onesta in relazione alla salute fisica della persona: perciò fu scambiato con il bastone di Esculapio, il dio della medicina, che però aveva un solo serpente. Curioso il fatto che il “messaggio alato” che porta il virus è proprio il suo RNA messaggero, che tanto ricorda il serpente a spirale del caduceo. Un codice di un singolo filamento, che ha bisogno del corpo dell’uomo per duplicarsi: non è forse l’uomo colui che in natura distingue gli opposti, che separa il bene dal male?
Bene e male sono due categorie liquide, e gli antichi lo tenevano ben presente (10). Seguendo lo storico delle religioni Károly Kerényi (11), nel mondo antico “epidemia” voleva dire originariamente l’“arrivo nel paese” di qualcosa in grado di sopraffare la volontà dell’uomo, e poteva essere una malattia ma anche un dio, come Dioniso, dio androgino della vita e della morte: cioè, un’epidemia era un evento sia positivo che negativo. Dioniso, in questo senso, liberava l’io dell’uomo dai vincoli che lo trattengono nella sua esistenza normale. Se pensiamo alla diffusione del Coronavirus come pandemia, cioè “attraverso tutto il popolo”, allora l’immagine è quella di un’esperienza che sconvolge la vita normale dell’uomo moderno. L’epidemia è stata in effetti un evento che ha posto all’attenzione il potere incontrollabile della vita e della morte biologiche, la vita come zoé, cioè “il principio, l’essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente, all’universalità di tutti gli esseri viventi e che ha come concetto contrario la non-vita e non, come si potrebbe pensare, la morte poiché questa riguarda il singolo essere che cessa, lui e soltanto lui, di vivere” (12).
Il virus lo ha fatto stravolgendo la vita dell’individuo umano, quella che i greci avrebbero piuttosto chiamato bios. “Pandemia”, allora, è un’esperienza che sconvolge l’anima come essenza e principio vitale di tutti. La potenza di questa esperienza è proprio quella di Hermes che, velocissimo, attraversa tutto il mondo e trasmette da uomo a uomo il messaggio divino di vita e morte, attraverso un’epidemia che improvvisamente cessa il mondo come l’abbiamo conosciuto e segna un nuovo inizio. Gli antichi greci avevano un mito anche sulla fine del mondo: essi credevano che dopo il tempo di Zeus ci sarebbe stato quello di Dioniso. “Io son Dioniso, generato da Giove”, scrive Euripide (13). Forse questo è l’avvento dell’era di un dio nuovo, quel Dioniso legato alla vegetazione e all’energia naturale, e che venne a rappresentare l’essenza spirituale della zoé greca, ossia l’esistenza intesa in senso assoluto, la corrente di vita che tutto pervade. Saremo forse più sensibili al flusso energetico della natura e ai suoi effetti sul nostro sistema di vita? Avremo cura dell’ambiente e useremo energie rinnovabili, così come avremo cura della nostra anima e della sua capacità di rinnovare l’energia vitale?
Dioniso fu il dio dell’Olimpo che accolse con maggior entusiasmo il dio Pan, quando vi fu portato da Hermes (per alcuni suo padre), tanto che questi divenne uno dei suoi compagni prediletti. Insieme, Dioniso e Pan facevano scorribande attraverso boschi e campagne, rallegrandosi della reciproca amicizia. Pan è il dio delle forze arcaiche e istintuali della natura. Il dio abbandonato dalla madre inorridita per la sua bruttezza. Pan diventa per noi il dio del panico e della paura, il primo sintomo psicologico scatenato nel mondo dal Coronavirus. È presente in tutti quei comportamenti e quelle immagini intrisi di una forte connotazione terrena e tenebrosa. L’esperienza di Pan sfugge al controllo egoico della persona, ricordando che c’è dell’altro oltre l’io, qualcosa che può avere una forza tale da soverchiarlo e farlo cadere nel panico. E poiché “gli dèi non vengono mai da soli” (14), Dioniso ci ricorda che insieme a lui corre Pan. Quando si perde il contatto con la natura, questa forza torna a noi sottoforma di un qualcosa di incontrollabile e sopraffacente. Pan ha la capacità e lo scopo di riconnettere ciò che è per noi bello e amorevole con ciò che è brutto e terrificante, doloroso e imprevisto: in poche parole, l’istinto con la natura, il “dentro di noi” con il “là fuori”. Ed è proprio la respirazione il sistema vitale che Pan fa parlare: il respiro affannato, il cappio alla gola, il dolore al petto, il soffocamento, l’iperventilazione sono tutti sintomi del panico che manifestano nel corpo la difficoltà di parlare per la psiche.
Scrive Rüdiger Dahlke: “Riabilitazione dalla malattia significa riprendere possesso della ‘casa fisica’, ‘arieggiare’ consapevolmente tutte le stanze, gli arti e gli organi: è questa la grande opportunità che ogni quadro clinico offre. […] le malattie nascono per la sottrazione della coscienza da determinate zone del corpo” (15). Per Dahlke, i quadri clinici rappresentano compiti, non colpe da espiare, retaggio quest’ultimo della concezione cristiana della malattia e della sofferenza in generale. Oggi siamo simbolicamente costretti a ventilare le stanze delle case come misura preventiva dal Coronavirus, per non aver arieggiato quelle della casa di Psiche. La malattia, come diceva il filosofo Blaise Pascal, “è il luogo in cui si apprende”. Anche se per molti oggi il virus puo’ sembrare una catastrofe, da κατά, “sotto”, e στρέϕω, “io volgo” (da qui καταστροϕή, “capovolgimento”, “ribaltamento”), ciò che da esso siamo chiamati a capovolgere è la nostra stessa visione: spostarla dall’alto al basso, dal macro al micro, dal fuori al dentro. E nella malattia, cioè nel male, possiamo apprendere il bene, l’insegnamento, il messaggio: quello del ritorno dell’anima nella sua casa-corpo, acquisendo di essa una nuova coscienza.

Adattarsi re-immaginando
La maggioranza dei pazienti positivi al Coronavirus manifesta sintomi lievi o assimilabili a quelli di un’influenza stagionale. Tuttavia il dieci per cento sviluppa una grave polmonite atipica con possibile insufficienza respiratoria. L’infiammazione polmonare si sviluppa in associazione al profilo psicosomatico di un paziente già sofferente ovvero immunodepresso, quello che comunemente anche i medici chiamano “stressato”. Oggi sappiamo che l’inibizione della risposta immunitaria è dovuta a una attivazione delle aree subcorticali dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che si attiva quando siamo posti in maniera duratura ad uno stimolo “stressante”, producendo cortisolo, il cosiddetto “ormone dello stress” (16). Lo stimolo è rappresentato da una quantità di compiti emotivi, cognitivi o sociali percepiti dalla persona come eccessivi o indesiderati, cioè quando la risposta psicofisica non si adatta alla stimolazione ambientale. Questo tipo di stress è identificabile nella condizione clinica che gli psichiatri elencano come “sindrome di adattamento” (17). Nel paziente la coscienza, per difesa, “prende le distanze” dal vissuto emotivo collegato nel corpo alla stimolazione ambientale stressante. Il distacco dal proprio mondo interiore si traduce nell’aumento di sintomi somatici e distress-correlati: il dis-adattamento interiore si manifesta nella vita relazionale e nel rapporto dell’individuo con l’ambiente circostante. Jung scrive che “è nell’intensità del disturbo affettivo che si trova il valore, cioè l’energia, di cui il paziente dovrebbe poter disporre per eliminare la sua condizione di adattamento ridotto. Rimuovere questa condizione, o svalutarla con argomenti razionali, non ci aiuta a progredire affatto” (18). Allora “non è aggirando o rimuovendo gli
stati d’animo spiacevoli che si raggiunge la vera liberazione, bensì vivendoli, subendoli fino in fondo” (19). Perciò i sintomi rappresentano le “prove” che l’anima stessa pone al paziente, ovvero i compiti e gli adattamenti che attraverso il corpo gli chiede di attuare.
James Hillman riteneva che gli archetipi potessero ammalarsi o far ammalare le persone: per questo la psicologia archetipica si propone di conoscerli per diventare, in un certo senso, consapevoli degli archetipi e della loro funzione, e non più vittime inconsapevoli. “Oggi la patologia la si incontra nella psiche della politica e della medicina, nella lingua e nel design, nel cibo che mangiamo. Oggi la malattia è – là fuori” (20). Se la psicoanalisi classica si è occupata dei pazienti elaborando i contenuti del loro mondo interiore e considerando l’esterno più che altro come luogo di proiezione del disagio soggettivo, la psicologia archetipica ci chiama oggi, come il Coronavirus, a occuparci del mondo “là fuori”: si tratta oggi di curare il mondo e il disagio collettivo, in una circolarità dei processi psichici relazionali.
Jung descrisse l’attività autonoma della psiche come un processo costantemente creativo, laddove la psiche crea ogni giorno la realtà attraverso l’immaginazione. Esse est percipi, ovvero noi creiamo il mondo ogni volta che immaginiamo, riprendendo il concetto già espresso dal filosofo Berkeley. Scrive Giorgio Antonelli che “l’anima dunque transita, e nel suo transitare, l’anima ‘domanda’ ovvero ‘manda in qualche luogo’. […] La successione dei luoghi dell’anima è il regno dell’immaginazione. Abbracciare una visione del mondo significa crearlo e farsi suo demone, assumersi la sua responsabilità, perché uno lo crea e lo ricrea ogni volta che lo immagina” (21). Il Coronavirus è allora immagine dell’anima del mondo, che transita nello spazio immaginale e ci domanda di re-immaginare il modo in cui vogliamo vivere e il mondo che vogliamo abitare, e nel farlo, in quello stesso luogo ci manda, allontanandoci l’un l’altro per riavvicinarci diversamente. Siamo stati chiamati ad assumerci questa responsabilità, e la psicologia archetipica come linguaggio dell’anima puo’ aiutarci a comprendere qual è il telos di questo grande transito, forse un cambiamento epocale verso una nuova era del mondo.
(2) A.A.V.V., Dizionario di Medicina, Roma, Treccani, 2010.
Torino, Boringhieri, 2007, p. 287.
(4) Ivi, p. 304.
(5) Hillman, J., “Psicologia archetipica”, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Treccani, 1980.
pp. 66-77.
(7) Hillman, J., op. cit.
(8) Eraclito, Frammento 45, trad. it. in Gentile, G., Storia della filosofia. Dalle origini a Platone,
Bagno a Ripoli (FI), Le Lettere, 2003, pp. 51-59.
Torino, Boringhieri, 2007, pp. 315-316.
(10) Guggenbühl-Craig, A., Il bene nel male: paradossi del senso comune, Bergamo, Moretti & Vitali,
1998.
(11) Kerényi, K., Dioniso: archetipo della vita indistruttibile, Milano, Adelphi, 2010.
(13) Euripide, Le Baccanti, Torino, SEI, 1990.
(15) Dahlke, R., Malattia come simbolo, Roma, Edizioni Mediterranee, 2005, p. 35.
and applications in seed science”, in New Phytologist, 2010, 188(3), pp. 655-673.
(17) American Psychiatric Association, Diagnostic and statistic manual of mental disorder – DSM 5,
APA Publications, 2013, p. 287.
2007, p. 97.
(19) Jung, C.G., Empiria del processo di individuazione, in Opere 9* Gli archetipi e l’inconscio collettivo,
Torino, Boringhieri, 2007, p. 325.
(20) Hillman, J., Anima mundi, in L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Milano, Adelphi, 2002.
(21) Antonelli, G., “L’angelo sceso sulle labbra. Discorso sull’ethos dell’immaginazione attiva”, in Il
linguaggio della Psiche. Quaderni di Psicologia Archetipica vol.1, L’Aquila, Porto Franco, 2012.