Quante volte abbiamo sentito la curiosità di andare a vedere un certo luogo, a esplorare un certo posto. Quante volte abbiamo desiderato addirittura cambiare casa e andarcene da dove viviamo. E quante altre, dopo averlo fatto, abbiamo avuto nostalgia dei luoghi in cui abbiamo già vissuto. Ci sono luoghi e paesi che ci chiamano, quando ne sentiamo parlare, quando ne leggiamo o vediamo le fotografie, quando li immaginiamo. Come se ci appartenessero da sempre. Sentiamo già che lì in quel luogo succederà qualcosa, magari conosceremo qualcosa (o qualcuno) di importante per la nostra esistenza. Eppure magari abbiamo già visto molti luoghi, in molti altri abbiamo viaggiato, senza sentirci forse ancora a casa.

Sembra che il cervello umano si sia sviluppato per associare la memoria ai luoghi, per orientare l’individuo nello spazio. Non a caso una delle più antiche tecniche per migliorare la memoria (anche nei malati di Alzheimer) è il cosiddetto “metodo dei loci”, ovvero di associare ogni cosa da ricordare a un luogo familiare. L’influenza del contesto ambientale nella costruzione di un ricordo, e sulla possibilità di recuperarlo, è stato ampiamente dimostrato sin dai primi esperimenti di Tulving e Baddeley negli anni settanta, e appare evidente nel momento in cui ci ritroviamo nei luoghi di infanzia e riviviamo i ricordi di quando eravamo bambini, o quando torniamo nei luoghi dove siamo stati con un nostro ex e ci sembra tutto diverso. Gli studi più recenti hanno quindi dimostrato che ai luoghi in cui viviamo, in cui ritorniamo o che immaginiamo, noi associamo le caratteristiche dei nostri vissuti interiori attuali, in altre parole i luoghi non sono semplicemente uno spazio fisico che ricordiamo, ma una dimensione intrapsichica che continuamente viviamo e re-immaginiamo, non solo al passato ma nel presente e verso il futuro.
Cosa succede quindi nella nostra psiche quando, ad esempio, scegliamo di lasciare una città o un paese per andare a vivere in un altro?

Un luogo è quindi una “narrazione” che si palesa attraverso l’immaginario che di esso si va costituendo in noi stessi. Il luogo è tale soltanto perché esistono delle persone che lo considerano il loro luogo e che lo abitano, lo popolano, lo vivono, lo pensano e lo modificano interagendo con esso. Il luogo è le sensazioni che ci evoca, le immagini che ne costruiamo e quelle che ne ereditiamo. Il luogo ha un senso, ci sente, ci avverte. Ci condiziona, talvolta ci possiede.
La stanza della psicoanalisi, come luogo di narrazione di se stessi, è allora un luogo perfetto, “il luogo dei luoghi”: un paese dove noi viaggiamo per conoscere noi stessi. La nostra vera patria, Itaca, là dove la nostra anima ci aspetta per ricongiungerci ad essa. Qui nel setting dell’analista, attraverso l’analisi dei luoghi di un sogno è possibile conoscere i propri luoghi interiori sotto forma di “simboli” e immagini psichiche che rappresentano i contenuti di ciò che abbiamo nel profondo. Conoscere quei simboli equivale a “fare coscienza” della propria anima e della nostra trasformazione interiore, per cui ciò che è dentro di noi nascosto diventa con-scio nello “stare con” l’analista nella stanza d’analisi, sia essa un luogo fisico che virtuale, ad esempio nella terapia online. È lo stare insieme all’analista e il “sapere con” lui (da syn-balléin, “simbolo”, che significa “stare insieme”, “riunire insieme”), che ci permette di ritrovare la nostra anima e di riunirci ad essa, e a tutti i nostri luoghi e i nostri dèi interiori. Attraverso il transfert che si crea con l’analista, le narrazioni di questi luoghi come dimensioni immaginali, fatte cioè di immagini psichiche che noi tendiamo a proiettare su luoghi del mondo esteriore, costituisce il sapere dell’analisi, un “sapere con” che io conquisto, strada facendo, attraversando i miei luoghi fatti delle immagini del mio mondo interiore. Viaggiando dentro me stesso assieme a un altro, io acquisisco un sapere che solo in quel momento, in quel luogo speciale che è il setting, io posso conoscere di me stesso.

Citando Pontalis , “ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi”. In altre parole, il rapporto che una persona instaura con l’ambiente circostante dev’essere visto in termini generativi di se stessi. Cerchiamo un particolare luogo del mondo per dare un’immagine a qualcosa che è già in noi. Come scrive Rilke, noi “nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno definitivamente”. Avere legami profondi con luoghi soggettivamente significativi è un’esperienza comune nella vita degli esseri umani fin dall’antichità. A questo speciale sentimento che ci lega ai luoghi importanti della nostra vita è stato dato il nome di “place attachment”, ovvero sentimento, identità e dipendenza di luogo. Nasce dal bisogno ancestrale di avere legami, di controllare il mondo, di sentirci di appartenere ad esso e in esso di permanere. In particolare, i luoghi acquisiscono per noi un valore affettivo nella misura in cui essi sono scenario delle nostre esperienze di vita più significative. Come si spiega allora il bisogno di andare via anche dai luoghi amati, o dai propri luoghi nativi?

Oltre ai significati individuali, legati alle esperienze e alle memorie personali, l’attaccamento al luogo è influenzato dai significati simbolici condivisi tra i membri di una comunità. In tal senso, l’attaccamento assume una funzione adattiva per l’identità comunitaria: è un modo di preservare i propri contenuti, i propri riferimenti, la propria cultura. Crescendo e facendo esperienze in un luogo, siamo portati ad acquisire una nuova visione della società e di noi stessi, e puo’ succedere che non ci identifichiamo più con il luogo in cui viviamo, e che sentiamo il bisogno di “provare” una nuova identità comunitaria e di attaccarci ai suoi nuovi simboli. La cultura, intesa come costruzione di significati della realtà esterna, attraverso i valori che ci trasmette influenza profondamente anche il nostro modo di percepire il mondo intorno a noi. Cambiando la cultura, cambia il modo in cui viviamo e sentiamo i nostri luoghi. E iniziamo a desiderare altro.
I processi di globalizzazione e la diffusione dei fenomeni migratori da una parte, e del “mito di una vita migliore” dall’altra, influenzato dai travel bloggers, hanno portato ad una progressiva omologazione dei luoghi, e ad un indebolimento delle idiosincrasie culturali. La diffusione capillare dei nuovi media ha ampliato la definizione di luogo, includendo anche i “non-luoghi virtuali”. A differenza dei popoli e degli individui che hanno la necessità di sopravvivere alla fame e alla guerra, oggi noi emigriamo per inseguire l’Anima che abbiamo perso in un luogo, per il miraggio del suo benessere, per condividere con un qualche collettivo l’ideale di un qualche modello di vita migliore. Ciò che emerge è una sempre maggiore permeabilità dei confini, non solo di città e paesi, ma anche della nostra psiche. In altre parole, cercando il nostro luogo migliore noi in realtà cerchiamo la nostra Anima in un nuovo spazio psichico affettivo, emozionale e relazionale a cui circoscriverla, dei “confini” spaziali in cui ritrovarla, un luogo dove poter risiedere simbolicamente con essa e attraverso cui transitarla.

I luoghi chiamano, evocano, ci inseguono con le loro immagini, i loro simboli e i loro significati. Gli antichi avevano compreso l’importanza e la complessità di questo processo: le civiltà classiche, infatti, avevano l’usanza di consacrare i luoghi a un nume, il Genius Loci (Genio del Luogo), che aveva un particolare rapporto con l’armonia del luogo, presiedendo alla buona relazione tra i diversi elementi (acqua, venti, vegetazione, etc) e che veniva immaginato incollerirsi quando le caratteristiche del luogo venivano alterate, portando a perseguitare l’uomo che vi abitava fino a indurre eventi funesti e calamità naturali.
Secondo James Hillman, “i luoghi rivelano loro stessi non tanto attraverso la concentrazione di particolari e la descrizione grafica dettagliata, quanto piuttosto attraverso ‘lo sguardo’. La visione che accoglie “tutto” come anima, atmosfera, natura e genio del luogo”. Hillman ci richiama non alle foto e alla visione superficiale dei luoghi, ma alla centralità dello sguardo dell’immaginazione, del vedere con l’anima le cose del mondo e, attraverso i loro significati, come fatti psichici in grado di guidare il Sé nel processo di individuazione. In particolare, dobbiamo “fare anima” nei luoghi e con i luoghi, ovvero applicare a riscoprirne lo spirito e i significati, quella componente numinosa e interiore che oggi sembra essere trascurata e dimenticata. L’intimità, l’interiorità, la profondità del luogo è quindi l’anima del luogo stesso.
Nella riflessione sull’anima dei luoghi, Hillman ci richiama alla necessità di rimettere al centro dell’interesse dell’individuo, della società, della cultura, della politica e dell’economia, il tema della Bellezza. Risvegliare il senso dell’anima nel mondo va di pari passo con una risposta estetica (il senso del brutto e del bello), perché la psiche, l’anima, nasce dalla bellezza e di bellezza si nutre, e perciò ne ha bisogno per vivere. Recuperare l’attenzione alla bellezza del paesaggio e dei suoi significati vuol dire recuperare l’ascolto dello spirito dei luoghi, e con questo arricchire l’anima, nutrirla di immagini, sentirla viva. La Psicologia Archetipica propone un recupero del contatto autentico e profondo con la psiche e con le molteplici e polisemiche immagini attraverso le quali essa si rivela. In una tale prospettiva, i luoghi che gli individui abitano, i luoghi ai quali essi si legano o dai quali si tengono lontani, possono costituire il luogo, ugualmente esterno e interno, dal quale partire per una ricerca della propria Anima e una ricongiunzione con essa.
