di Stefano Cobianchi
La medicina e le neuroscienze oggi sono in grado di alleviare la maggior parte dei sintomi e delle patologie indotte da un danno o un fastidio a una parte del corpo, ma la comprensione della loro origine resta sempre limitata al corpo stesso. Supponiamo che vi inizi a far male il collo o la schiena. Una radiografia è in grado di visualizzare l’estensione di un possibile danno interno. Altri test sono in grado di rilevare eventuali infiammazioni negli organi circostanti. Ma non esiste ancora una terapia in grado di visualizzare il vissuto emotivo che, nella nostra psiche, accade insieme al sintomo lamentato nel corpo. Perché abbiamo assunto quella contrattura o quella posizione disfunzionale così a lungo da causare il mal di schiena? Perché per esempio ci viene quell’attacco d’ansia improvvisa? Perché a un certo punto compaiono delle verruche, o iniziamo a soffrire di mal di testa o di ipertensione? A questo tipo di domande la medicina moderna non puo’ dare risposte certe.
Il medico è infatti abituato a inquadrare il sintomo somatico (o psichico) come una patologia da estirpare, piuttosto che come il segnale di un problema di cui il paziente non è ancora cosciente, che si manifesta per far attivare il paziente e le sue risorse. Un sintomo è infatti espressione dei cosiddetti “nuclei di esperienza dissociati” ed è il tentativo di una connessione tra i sistemi di espressione non verbali e quelli verbali della persona. Ad esempio, una gastrite è il sintomo dell’ipereccitabilità del colon che, appena mangiamo qualcosa diverso, verte già in una condizione neurobiologica e biochimica di “allarme”, magari per stress o ansia accumulata, in cui il medico non vedrà altro che una qualsiasi infiammazione. Il medico non è infatti in grado di valutare il disturbo in termini di tristezza, delusione, sconforto, giustificazioni su eventi della vita del paziente e quelle attribuzioni di significato che nel vissuto inconscio del paziente hanno cambiato il suo modo di vivere e pensare, fino a generare il sintomo e la disfunzione. È ormai ampiamente dimostrato che la nostra condizione fisica è strettamente collegata a quella psichica. Oggi la psicosomatica e la metamedicina ci permettono di capire come interpretare i sintomi attraverso la relazione organi-emozioni, per capirne il messaggio profondo.

La psiche oltre i limiti della Medicina
Il dolore, il malessere o l’ affezione sono sì i segni precursori dell’incrinarsi dell’armonia in una parte dell’organismo, ma impegnarsi a far scomparire questi segnali con medicine e trattamenti senza ricercare l’informazione dello squilibrio di cui sono forieri sarebbe come disinserire l’allarme antifumo dopo che ha rilevato un focolaio d’incendio. Ignorando l’allarme, rischiamo di trovarci di nuovo nel bel mezzo delle fiamme, ed è precisamente quanto fanno coloro che inghiottono farmaci senza cercare di capire quale sia l’origine del segnale. Ciò non significa che sia necessario rifiutare una medicina o il trattamento proposto dal medico, che potrebbero darci sollievo: significa invece non limitarsi a voler cancellare il dolore o a voler far scomparire i sintomi, ma voler davvero eliminare anche ciò che ha potuto originarli e farli mantenere. Inoltre, il medico ha tanto il potere di rassicurarci e aiutarci in un processo di guarigione, quanto di crearci un grande panico (diagnosticandoci possibili mali incombenti) che darà luogo a problemi finora inesistenti come “complicazioni” o aggravamenti dovuti allo stress e alla paura causati dalla stessa diagnosi ricevuta, che come ben sappiamo, sono i principali nemici delle difese naturali del nostro corpo. È ciò che si chiama “impatto iatrogeno” della diagnosi medica. È evidente che la causa del male va spesso ben oltre la patologia diagnosticata, soprattutto nei casi in cui una malattia si aggravi o si ripresenti in altra forma nonostante aver preso medicine o aver seguito una terapia.
Perciò se ci limitiamo alla sola visione della medicina moderna, la nostra attenzione sarà posta solo sul corpo e sul sintomo percepito (o sul male diagnosticato), mentre esso è solo l’oggetto di proiezione di un più complesso e precedente disagio interiore. Considerando la materia biologica come origine della sofferenza, noi la immaginiamo come unica causa possibile dei nostri problemi, ignorando invece quale sia la vera origine del nostro mal di schiena o del sintomo lamentato: la manifestazione di uno squilibrio che portiamo dentro e che si rispecchia in qualcosa che vediamo e sentiamo fuori. La medicina moderna e la psichiatria ci hanno invece abituato a vedere la malattia come una condizione inevitabile dell’esistenza umana e che ha origine da una causa esterna, da un “aggressore” della nostra salute (vista come sempre precaria) e del nostro equilibrio interiore (visto come qualcosa di preesistente da difendere dall’esterno). Nel ricercare l’origine del male, la medicina moderna tratta quindi le persone come se fossero tutte uguali, utilizzando trattamenti la cui efficacia viene studiata su delle “medie” statistiche e trattando i nostri sintomi e le nostre diversità non come espressioni di una esistenza unica e di un percorso di vita individuale, ma come qualcosa da cancellare e da normalizzare. Sappiamo invece che la materia biologica, seppur partendo da una matrice genetica comune, è in continuo mutamento e si combina in modo eccezionale in ciascuno di noi, formando personalità che vanno ben aldilà di ciò che si presuppone di poter identificare in modo esatto e uguale nel corpo di tutti gli esseri umani. Non si deve mai dimenticare perciò il ruolo che la psiche ha come attivatore e modulatore del sintomo e della malattia.

La terapia dell’anima
Le terapie di stampo comportamentista come pure la psichiatria classica, disconoscendo il ruolo della psiche, mirano all’eliminazione del sintomo senza porsi troppe domande sulla sua origine, oppure tentano di reprimerlo con i farmaci e di cancellarne così la manifestazione che proprio aveva il significato di allarme rispetto al suo vissuto emotivo interiore. Un tipo di intervento farmacologico oppure diretto al sintomo e al cambiamento del comportamento considerato “disfunzionale” puo’ anche eliminare quel sintomo o quello specifico comportamento associato, ma lascia tuttavia inelusa la domanda più profonda che inconsapevolmente il paziente porta nello studio del medico, ovvero quella di essere aiutato a capire qual è l’origine del sintomo e in caso modificare ciò che non va nella sua vita.
Le neuroscienze hanno già dimostrato l’azione terapeutica della psicoterapia sui neuroni del cervello, esaminando come si verifica il cambiamento positivo nel paziente (Gabbard, Westen, 2003; Gabbard, 2010). Già il semplice scambio colloquiale nella relazione tra analista e paziente porta a una modificazione dei collegamenti tra le memorie apprese, ovvero delle sinapsi nelle reti neurali del nostro cervello, portando a un cambiamento utile, ad esempio, a non evocare reazioni emotive negative in determinate circostanze o al cospetto di un certo tipo di persone. Possono inoltre venire rinforzati legami associativi prima deboli, e ciò significa che parlando delle nostre problematiche, attraverso le interpretazioni che di esse costruiamo con l’analista psicoterapeuta e il nuovo significato che gli attribuiamo nel contesto della nostra vita, noi apprendiamo risposte comportamentali più forti e adeguate. Lo Psicoterapeuta può man mano fornirci un’ampia gamma di insight, ovvero intuizioni, su una serie di eventi mentali che accadono nella nostra psiche: paure, fantasie, sogni, aspettative, desideri, difese, conflitti, pattern relazionali. Simili insight sono capaci di modificare le connessioni tra reti di neuroni del nostro cervello e della memoria, e aiutare a “riprogrammarla” attraverso la comprensione di noi stessi e dei nostri vissuti emotivi, diminuendo la frequenza o l’intensità dei nostri stati emozionali spiacevoli o indesiderati.
Gli effetti della relazione terapeutica si traducono, oltre che in nuove strategie comportamentali e in una nuova consapevolezza di sé, anche in una sensazione di benessere e sollievo, a volte piuttosto immediato, sensazione che può essere più o meno duratura a seconda dell’efficacia della relazione. Le neuroscienze hanno inoltre dimostrato che gli effetti di sollievo dalla sofferenza sono associati anche a un aumento della densità dei recettori della serotonina nel cervello, effetto di gran lunga più duraturo rispetto al trattamento farmacologico, e fortemente associato a un miglioramento del funzionamento relazionale, sociale e occupazionale (Karlsson et al., 2010, 2013; Gabbard, 2014).
Resta quindi evidente che solo la psicoterapia (letteralmente, “terapia dell’anima”) puo’ curare la psiche dell’uomo, e lo puo’ fare attraverso la parola, dando forma cosciente a ciò che risiede nel nostro inconscio, all’interno di una relazione terapeutica che non si trova in uno spazio materiale né in un tempo fisicamente definiti, ma che si crea e si ricrea in ogni momento e si produce nella nostra immaginazione. I contenuti elaborati all’interno di questa relazione attingono direttamente da un inconscio che sempre sfuggirà allo stampo e al metro della scienza, poiché sono esclusivamente individuali e, attraverso il colloquio, si manifestano sotto forma di vissuti emotivi ed energie immateriali. La psiche viene quindi modificata attraverso i molteplici significati delle parole e delle immagini mentali, poiché è da esse che la psiche è formata.