di Stefano Cobianchi
Sono sempre di più le persone che ad oggi sentono il bisogno di ritornare ad ascoltare il proprio corpo a seguito di un periodo di grande stress, delusione o cambiamento. Le emozioni e i sintomi, come immagini del corpo, sono infatti simboli del linguaggio della psiche, che esprime le sue immagini e i suoi bisogni anche attraverso di esso. Ma yoga e meditazione sono utili come psicoterapia? Qual’ è la giusta tecnica per un efficace approccio psicologico a queste pratiche orientali?
Yoga e psicologia analitica: una base comune
Forse non lo sapevate, ma la psicologia junghiana deve il suo sviluppo finale allo yoga e alla meditazione orientale. Fu leggendo “Il segreto del fiore d’oro” di Tung-Pin Lu, testo fondamentale di filosofia taoista e alchimia cinese, che Carl Gustav Jung venne ispirato all’elaborazione della psicologia analitica come teoria psicologica volta allo studio delle immagini o meglio degli immaginari archetipici. Mentre usciva dalla sua lunga crisi creativa terminando la scrittura del famosissimo Libro Rosso, grazie a questo testo Jung ebbe uno sblocco della concezione della dinamica energetica dell’immaginazione nella psiche, da cui generò le successive tre opere sull’alchimia. Jung interpretò a modo suo il testo sulla meditazione orientale, cioè nel modo in cui egli stesso aveva vissuto le sue visioni e le sue esperienze immaginative, portandolo a una consapevolezza pratica e diretta di manipolazione delle immagini spontaneamente prodotte dalla psiche, mentre la filosofia cinese restava invece più astinente rispetto all’uso attivo delle immagini in meditazione, facendole soltanto transitare nello spazio della mente.
Dal punto di vista pratico, Jung vide nello yoga un sistema simbolico formidabile per descrivere l’inconscio, da cui trasse le sue formulazioni più elevate come il concetto del Sé, di sublimazione dell’energia, o quello di opposizione. Tuttavia, non avendo una conoscenza profonda della tecnica dell’osservazione non-giudicante della meditazione orientale, egli si fermò a descrivere ciò che accadeva in uno stato di rilassamento generale dando massimo spazio alla tecnica di immaginazione attiva a scopi psicoanalitici. D’altra parte, ciò lo portò però a credere che la tecnica della meditazione fosse pericolosa se utilizzata senza preparazione, fino a interdirla all’uomo occidentale che, secondo lui, non era preparato a liberare il flusso delle sue immagini psichiche e rischiava di restarne sopraffatto.
Dopo di Jung, James Hillman ebbe modo di approfondire la conoscenza della meditazione e, a differenza di Jung, ne commentò positivamente l’esperienza nei termini della psicologia analitica. Hillman pone al centro della sua revisione della psicologia la riscoperta della realtà come pura immagine, sogno, miraggio o proiezione, così come tutti i fenomeni ad essa connessi, che sono più che altro un prodotto del nostro immaginare. È attraverso l’immaginazione, infatti, che noi vediamo il mondo, per cui risulta essere così come lo vediamo in base al risultato di come noi lo immaginiamo. Già Jung aveva compreso che l’energia psichica può esprimersi soltanto attraverso le forme delle immagini psichiche e dell’immaginare persone, animali, spazi, luoghi, suoni, voci, colori, e tutto il resto. Se l’energia non riesce ad assumere forma e transitare nella psiche come immagine, essa resta pura energia che resta imbrigliata nella psiche e così esprime solo inquietudine, ansia e agitazione: energia inespressa come pura emozione, senza mai capirne il telos, cioè la direzione, l’immagine o la forma di riferimento. Abituati a non dar retta alle immagini spontanee della nostra psiche né tantomeno alle emozioni del nostro corpo, noi occidentali avremmo perso la capacità di sognare e di immaginare, pensando persino a rimuovere le emozioni con la forza dei farmaci o della volontà di un io perennemente inflazionato da ideali di perfezione e protagonismo. Hillman ci invita a recuperare la visione immaginale, perché le emozioni e l’energia autonomamente prodotte dalla psiche che non riescono ad essere trasformate in immagini, distruggono il corpo e la psiche stessa. Da qui la possibilità e l’utilità di elaborare le immagini in psicoterapia, attraverso l’analisi delle forme in cui emergono attraverso lo yoga e la meditazione, nel corpo e nella mente.

La visione immaginale
Allo stesso modo, infatti, yoga e psicoterapia si sono entrambe occupate di portare l’operatore a ottenere il cosiddetto “fiore d’oro”, l’equivalente metaforico dell’oro alchemico e della pietra filosofale dell’alchimia, come benessere psicofisico e realizzazione, con obiettivi la longevità e la rigenerazione dallo stress e dalle malattie. Così come nello yoga si lavora in un processo di liberazione dell’energia attraverso i vari nuclei o chakra o campi energetici del corpo, in psicoterapia noi ci concentriamo in un processo di attenzione o “sentire” sempre più elaborato, attraverso le fasi del lavoro alchemico sulla materia psichica, transitando le immagini psichiche che emergono da questo lavoro, fino all’integrazione delle funzioni psichiche, metaforicamente descritto nello yoga dal risveglio della kundalini, che rivolge il suo movimento verso lo spazio interno, salendo progressivamente per i centri o i livelli superiori. Questo “risveglio” è metaforicamente assimilabile a quello che avviene in psicoterapia rispetto alle immagini della psiche: noi ci risvegliamo alla visione interiore, una visione immaginale o “in trasparenza” secondo la psicologia archetipica di James Hillman.
Il risveglio della visione immaginale è chiamato in psicoanalisi “ritiro delle proiezioni”, analogamente alle tradizioni spirituali esoteriche, come il tantrismo sciamanico, in cui è chiamato “riassorbimento del reale”, o come caduta del “velo di Maya” delle dottrine indiane. Viene favorito dal rilassamento psicofisico, che è alla base delle varie tecniche e stadi di elaborazione degli stati di coscienza, che possono essere raggiunti attraverso specifici esercizi di yoga e meditazione (ad esempio le tecniche base dello Hatha yoga e della meditazione Vipassana), e che possono essere utilizzati all’interno di una seduta di psicoterapia analitica archetipica. Lo scopo è sempre quello di raggiungere uno stato interiore che faciliti i meccanismi di trasformazione psichica e del cambiamento delle nevrosi. Qui, la guarigione rappresenta il recupero di una completa visione immaginale attraverso il riequilibrio del flusso dell’energia psichica tra i vari livelli del corpo, e il ricongiungimento delle parti di sé rimosse, ovvero di quelle immagini psichiche bloccate in sintomi o dei complessi rimasti non elaborati e resi inaccessibili alla coscienza. Il sintomo stesso, ad esempio un dolore a una parte del corpo o una paura, va elaborato: la dimensione del problema viene lavorata dal terapeuta istruttore insieme al paziente operatore, analogamente a quanto faceva lo sciamano che creava quel rituale attraverso cui portava il malato alla ricerca dell’anima perduta o rapita da un dèmone, per ricondurla al suo corpo sofferente.
Inizialmente è importante, quindi, lasciarsi andare alla voce dell’istruttore e alle percezioni che provengono dagli organi di senso e dal proprio corpo, per raggiungere una condizione di tranquillità con cui poter lavorare su se stessi. Qui, l’istruttore diventa uno psicopompo, lo “spirito-guida” in linguaggio sciamanico, che ci accompagna in un viaggio nel nostro aldilà. È anche un totem mediatore, un mezzo soggettivato che ci permette di entrare nel Mundus Imaginalis, il metaxy platonico, la dimensione immaginale descritta da Corbin e Hillman laddove è possibile conoscere le immagini della nostra psiche.
Se da una parte la psicologia dinamica ci ha abituati a concepire la nostra psiche come unitaria, e la malattia come una disgregazione delle parti che la compongono, prospettando il lavoro psicoterapico come fautore del ricongiungimento di queste parti, il lavoro con le immagini ci fa scoprire una realtà psichica ben diversa, ovvero policentrica e dove l’io cosciente è solo una di esse, spesso in conflitto con le altre. Qui sia la psicoterapia che la meditazione ci insegnano a non escludere nessuna di queste parti dall’opera di conoscenza, elaborazione e ricongiungimento delle relazioni tra di esse. In particolare, la caduta delle proiezioni dell’io volge al suo ricongiungimento con le altre parti rimosse, ma anche alla sua riduzione e al suo ridimensionamento a mera immagine psichica come le altre. Qui ci avviciniamo alla condizione di accoglienza e di osservazione distaccata non giudicante delle nostre altre parti, attraverso l’allenamento a lasciar passare e transitare le immagini psichiche in yoga e meditazione, fino a stabilire un dialogo tra queste parti e sciogliere i conflitti tra esse.

La respirazione
La parola yoga significa infatti “unione con il tutto, con la natura, con l’assoluto”. Oltre a essere una filosofia, lo yoga è un insieme di esercizi che porta allo sviluppo e al completo controllo della totalità dell’essere umano: corpo, mente, psiche. Il respiro è alla base di questo controllo. In una posizione normale, la respirazione coinvolge sia la parte alta che quella bassa dei polmoni (50% pancia/50% torace), gonfiando e sgonfiando tutto il tronco. Tuttavia il nostro flusso respiratorio varia a seconda del nostro stato di coscienza, dello stress fisico e dello stato emotivo, e delle loro variazioni. Quando respiriamo in modo completo e “pulito”, ovvero con tutto il tronco, siamo in una posizione “ideale” di equilibrio. In un respiro ideale, il nostro corpo sta in una condizione senza sforzo né stimoli, quindi di pace e quiete, in una sorta di stato meditativo. In un respiro “ansioso”, invece, le emozioni negative sono bloccate nel corpo, che resta sotto sforzo e stimolato.

La trasformazione del prana
Nello yoga il flusso delle emozioni, che agisce in modo attivo o passivo, viene chiamato “prana”, che non è ben tradotto come energia vitale ma come “forza vivente intenzionale”. Nella medicina cinese questa forza equivale al “qi”, ed è considerata una forza psicofisica in ragione della nostra attività vitale legata a quello che stiamo facendo. Ci sono buone ragioni per fare una correlazione tra il prana e la libido, ovvero l’energia sessuale che, secondo la psicoanalisi classica, si manifesta come principio di piacere. Il prana, infatti, è considerato come un’essenza sublimata dello sperma o degli ovuli femminili, quindi avrebbe una natura sessuale.
La parola prana inoltre deriva da “ojas”, che sarebbe l’energia prodotta nel corpo dalla nutrizione, dall’emozione e dalla salute mentale, rappresentativa del benessere psicofisico.
La nostra salute sessuale è, nelle medicine orientali, anche un indicatore della nostra salute mentale: i gameti vengono visti come il fiore del nostro corpo in salute, nonché la nostra stessa forza motivazionale e mentale verso le attività quotidiane. Nella cosmologia indiana, questa forza è vista come la grande eiaculazione di Shiva e in cielo rappresentata nella Via Lattea, e diventa prana quando si manifesta nelle emozioni e nel comportamento umani.
Traendo ispirazione dalla lettura dei testi indiani, Jung ipotizzò che la libido freudiana fosse non solo una manifestazione della forza sessuale, ma anche di quella psichica creativa, che appartiene a tutta la varietà di manifestazioni della vita. Se il prana, infatti, rappresenta la forza dell’anima, esso puo’ essere trasformato e diventare ojas, la capacità psichica espressa dal corpo, oppure “tejas”, “luce” o forza spirituale, nonché illuminazione mentale, cioè la capacità del pensiero.
La trasformazione del prana deriva dalla consapevolezza del nostro ruolo all’interno di qualcosa che accade; questa presa di consapevolezza puo’ portare al cambiamento delle concezioni del soggetto verso ciò che accade nell’universo e a se stesso, quindi ha un effetto psicoterapeutico. Essa avviene attraverso l’interazione e la partecipazione intenzionale alla manifestazione tra corpo e spirito con la propria anima e in modo senziente. Inizia da esercizi di respirazione e rilassamento, e prosegue con tecniche meditative e immaginative. Si organizzano pacchetti di 6-8 incontri in cui si lavora sul sintomo, partendo da una dimensione “tecnica” della pratica yogica, e successivamente lavorando oltre la gestione del “segno” del sintomo, andando a esplorare il suo fattore profondo e simbolico in un lavoro analitico personale, “artistico” e creativo.
La forza del prana si manifesta nella forza fisiologica delle varie aree del corpo dove si possono psicologicamente manifestare i vari nuclei di somatizzazione delle emozioni. Quando è in salute, il nostro corpo manifesta la sua forza e si esprime in tutte le varie correnti in cui si divide il prana: “viana”, negli arti; “udana”, tra la gola e la testa; “prana”, nel petto; “savana”, nella pancia; “apana”, nella zona viscerale. In psicoterapia si cerca di riequilibrare il flusso di queste correnti tra loro. Ad esempio, la corrente apana ha a che fare con lo scarico a terra di energia che puo’ rimanere bloccata nella zona viscerale, causando impotenza e altre somatizzazioni. In generale, tutte le correnti del prana sono orientate verso l’esterno, e rappresentano fisiologicamente il naturale scarico energetico delle energie psichiche attraverso gli organi del corpo. Il blocco di una o più correnti determina una perdita dell’equilibrio energetico, e quindi la causa di uno o più sintomi somatici. Attraverso gli esercizi di postura e respirazione yogica, perciò, noi non assecondiamo le correnti energetiche “disfunzionali”, ma le fermiamo attraverso la respirazione e il movimento del corpo, riuscendo poi a trasformarle in presa di consapevolezza nell’atto meditativo. Così anche nella meditazione, noi fermiamo il prana e lo investiamo o finalizziamo (sublimandolo e “purificandolo”) in forza spirituale, inducendo un processo di cambiamento dei propri fattori pulsionali e motivazionali, nonché individuando la nostra anima nel mondo oltre che nel nostro corpo e partecipando al nostro naturale processo di crescita e di evoluzione.
Inoltre, con le tecniche immaginative, noi permettiamo che il prana si sublimi e si trasformi nelle immagini dell’anima, ottenendo quella che James Hillman ha chiamato la “visione in trasparenza”, ovvero l’insight psicodinamico, l’intuizione che ci permette la comprensione dei nostri blocchi emotivi e il loro significato. Il nostro corpo è quindi una “interfaccia” della nostra anima, su cui essa puo’ proiettare, attraverso il rilassamento, le immagini (ovvero le rappresentazioni mentali) di uno stato emotivo e psicofisico rilassato. Queste immagini possono essere rievocate e riattivate poiché già conosciute nel proprio passato e inscritte nella propria memoria emozionale.

Psicoanalisi, yoga e meditazione possono quindi essere delle pratiche ben integrative e complementari. Se da un lato la tecnica di respirazione favorisce un ripristino del controllo delle energie emotive nel corpo, e quella meditativa favorisce la consapevolezza e il divenire delle immagini mentali, dell’altro la psicologia si occupa dei problemi che sussistono quando queste immagini non fluiscono bene nel loro transito nella psiche, e dei meccanismi sottostanti al blocco delle emozioni. Ad esempio, nella pratica meditativa come in un sogno o in un esercizio di immaginazione, se ci imbattiamo nell’immagine di un albero, in psicoanalisi ci occupiamo di definire la struttura e la forma dell’albero nella sua immagine per comprenderne il significato, mentre in meditazione ci occupiamo di far “transitare” nella psiche quella stessa immagine. La meditazione non è una sorta di auto-analisi, ma offre l’accesso a una psicoterapia analitica più ampia, dove si lavora affinché i contenuti che emergono nell’individuo transitino nella sua psiche, occupandosi di tutti i suoi immaginari tra cui quelli che determinano la sofferenza e l’ansia.
È inutile tuttavia pensare che gli esercizi corporei come lo yoga, o le pratiche spirituali come la meditazione, da soli siano sufficienti per conoscere se stessi. Queste pratiche, indubbiamente potenti, non risolvono i conflitti emotivi e psicologici che molti di noi mantengono nella propria psiche inconsciamente, e manifestano nel proprio corpo e nel comportamento, ed evocarne le immagini o indurre stati psicofisici di rilassamento non vuol dire di per sé scioglierli e cambiarli.
D’altra parte, parlare di temi psicologici sembra non essere sufficiente per l’essere umano, che aspira sempre a qualcosa di più, al trascendente, alla totalità. Più completa e equilibrata sembra essere dunque una psicologia archetipica o transpersonale, che metta insieme psicoanalisi, benessere fisico e ricerca spirituale aldilà del singolo individuo, riconducendolo al collettivo e alla natura. Poiché tutto è psiche, e tutto è sua immagine come manifestazione, è la psiche stessa il principio primo e ultimo di ogni cambiamento. Attenti dunque a non usare yoga e meditazione come una evasione esotica da se stessi. Perché, come diceva Jung, il rischio è questo:
“Si fa di tutto, anche le cose più strane, pur di sfuggire alla propria anima. Si compiono esercizi di Yoga indiano di qualsiasi osservanza, si seguono regimi alimentari, si impara a memoria la meditazione, si ripetono testi mistici della letteratura mondiale, tutto perché non si sa affrontare sé stessi, e perché a gente simile manca ogni fiducia che dalla loro anima possa scaturirne qualcosa di utile. Così gradatamente l’anima è diventata quella Nazareth dalla quale non può nascere nulla di buono; per questa ragione la si va cercando ai quattro venti, e quanto più è lontana e bizzarra tanto a questi pare meglio”.
(Carl Gustav Jung)
Bibliografia:
Riccardo Brignoli, Yoga, Psicologia e Akchimia. L’immaginario della meditazione nello Yoga e nella Psicoterapia, 2016, Aldenia Edizioni.
Riccardo Brignoli, Il tempo e lo Yoga. Approfondire la pratica e la psicologia dei livelli superiori, dal Pranayama alla meditazione, 2016, Aldenia Edizioni.
Riccardo Brignoli, L’Anima dello Yoga. Un’introduzione alla psicologia ed alla pratica dello Yoga nell’era digitale, 2015, Aldenia Edizioni.

