di Davide Parlagreco
Da quante prospettive si può osservare un fenomeno?
Da quante prospettive abbiamo riflettuto sulla situazione attuale?
Che significato può avere per noi tutto ciò?
In questo difficile momento che noi tutti stiamo attraversando, oltre ad esprimere solidarietà per tutti i cittadini colpiti in vario modo da questo virus, desidero cogliere da questa situazione un’opportunità di riflessione. Non politica, né sociale né tantomeno medica, ma psicologica.
Più precisamente, intendo leggere questo evento utilizzando la lente, la prospettiva della psicologia del profondo.
In tal senso, leggendo psicologicamente e simbolicamente il fenomeno del Coronavirus nel suo complesso, questo sembra parlarci di un modo di vivere dell’uomo che ha fatto il suo tempo, che si deve trasformare, che non è più possibile portare avanti.
Come vedremo più avanti, ritengo che questa condizione ci ponga dinnanzi a un paradosso: un virus che ci costringe in una prigionia, liberandoci dalla prigionia di ciò che è produttività, apparenza, consumo, esteriorità inconsapevole.
Dobbiamo prima esser schiavi, per poter comprendere e apprezzare la libertà, per poter esser liberi di guardare all’essenziale, senza le catene del consumismo psicologico, oltre che sociale.
Le mie riflessioni, non nascono da una prospettiva fatalistica per la quale l’uomo, comportandosi in modo improprio, viene punito dall’ecosistema, da Dio, o da chicchessia, ma intendono promuovere ciò che Hillman chiamava la “visione in trasparenza”, una visione psicologica, interiore, animata, sulle cose della vita, che a queste restituisce significato e ricchezza.
Per addentrarci in questa visione, è necessario partire dalla patologia, che etimologicamente (pathos + logos) significa il discorso del pathos, ciò che il patire ha da dire a tutti noi. E il pathos è ciò che apporta al nostro vivere un’intensità emotiva, una certa consistenza ed importanza, ciò che ci rende partecipi di ciò che viviamo.
Patologizzazione: la sofferenza puo’ avere uno scopo?
Per descrivere quello stato diffuso di sofferenza, inquietudine, incertezza, alienazione, angoscia, fobia che in questo momento attraversa, più o meno e più o meno giustificatamente ognuno di noi, non posso trovare nessun concetto più appropriato della 𝑝𝑎𝑡𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑧𝑧𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, termine usato dal grande James Hillman per descrivere quell’attività autonoma della psiche di creare sofferenza, tormenti e distorsioni di ogni tipo, in modo tale da avere un’altra prospettiva attraverso cui guardare il mondo e la nostra vita.
Quale altro sistema può esservi, per far cambiar rotta a chi non ne vuole sapere e sembra non ascoltare altre voci oltre alla sua, se non costringerlo attraverso uno “sgambetto”, un sabotaggio o una reclusione? E se questi non fosse solo un individuo ma una società intera?
È così che la patologizzazione, funzione del singolo come della collettività, entra in gioco in questo caso isolandoci, recludendoci, infettandoci, insinuandosi dentro di noi, angosciandoci, fino a toglierci la capacità di respirare ma al contempo regalandoci tanto tempo.
Alcune possibili domande che tutto ciò porta con sé sono: “come lo riempio? Esiste qualcos’altro oltre a tutto ciò che riempiva il mio quotidiano? Oltre a tutto ciò che ho sempre ritenuto importante, se non indispensabile?”.
Per la teoria dei sistemi ogni aspetto del macrocosmo, dell’ecosistema, è connesso con il microcosmo, la dimensione delle nostre vite individuali, ed è in questo senso che la situazione di pandemia attuale sincronicamente coincide con la nostra psiche collettiva e personale, con il senso che ogni giorno diamo alla nostra vita, vivendola in un certo modo.
La patologizzazione è una sofferenza, una follia che cura. Come diceva Hegel, queste sono esperienze dell’anima altrimenti non ottenibili.
Se la patologizzazione può quindi esser letta in tal senso come portatrice di un messaggio, un messaggio di necessità, quale potrebbe essere?
Per rispondere a questo quesito, addentriamoci nella simbologia del virus stesso
Il significato simbolico del virus
L’aspetto simbolicamente più significativo del virus è quello di essere un microrganismo che si insinua in un organismo per riprodurvisi e prosperare. Psicologicamente quindi il virus è un qualcosa di esterno e di invisibile, come è invisibile il nostro inconscio, che ci “invade”, che invade e contagia il nostro quotidiano, moltiplicandosi e quindi prendendo spazio in noi.
È qualcosa che fa parte di noi a cui non abbiamo dato sufficiente spazio, qualcosa che cozza con il nostro modo cosciente di vivere, di stabilire cos’è importante e cosa no.
Il paradosso del Covid-19
Alla luce di queste premesse, possiamo leggere il significato psicologico del coronavirus, allo stesso modo con cui si leggerebbe un sogno, come una necessità, finora non accolta, dell’inconscio collettivo di dar spazio a qualcosa cui non ne abbiamo dato abbastanza. Ma che cosa?
Il fenomeno del Coronavirus nel suo complesso ci mette di fronte alla necessità di fermarci, di stare dentro casa, semplicemente di stare. Essere, nel qui ed ora. La necessità di vivere la vita con patos, di smettere di sentirci onnipotenti, di vivere anche la nostra fragilità.
Noi che ci sentiamo intoccabili, grazie a farmaci e tecnologie sempre più avanzate, noi che ci spostiamo da un continente a un altro nel giro di poche ore, che possiamo mangiare ogni tipo di frutto della terra in ogni periodo dell’anno, che produciamo molto di più di ciò che realmente usiamo, come possiamo essere raggiungibili da un male così piccolo, microscopico e antico? Come possiamo, nel glorioso modello occidentale globalizzato, essere di nuovo succubi della peste, un male ormai superato e debellato dall’uomo moderno?
Questo virus ci sta mostrando che ciò che infinitesimale e invisibile, agisce ed è importante e reale esattamente come ciò che è visibile.
Esso ci invade, si diffonde, ci infetta, ci entra nei polmoni non permettendoci di respirare, ma prima di tutto ci blocca, ci ferma a casa.
Ci costringe in un luogo di interiorità e intimità qual è la casa, ci costringe alla non attività, ad interrompere la corsa sfrenata e perpetua alla produttività, al superamento costante di limiti, al volere ciò che non abbiamo. Volere ancora e ancora, tutto, subito, in modo bulimico, quasi fosse un bisogno impellente, una pretesa.
Tutte questioni esterne alla nostra interiorità, alla nostra profondità, a ciò che siamo al di là di ciò con cui riempiamo gli spazi vuoti della nostra vita. Quel vuoto che è ricchezza invisibile, contenitore fertile, come un utero, di ogni nostro possibile cambiamento, di ogni nostra gioia, di ogni significato che può avere il nostro essere al mondo.
Quel vuoto fertile che pertiene a azioni non azioni, come riflettere, pregare, partecipare a un rituale, oziare, contemplare, patire, abbracciare qualcuno, dipingere, scrivere una poesia, piangere, amare.
Mentre, l’esteriorità si compone delle cosiddette azioni produttive come lavorare, costruire, guadagnare, comprare, ottenere, insomma produrre qualcosa di concreto, visibile ai sensi.
Il paradosso di questa situazione è che questo virus ci costringe in una prigionia e, così facendo, ci libera da un’altra. Ci costringe dentro casa, ci costringe dentro, e così facendo ci costringe a uscire fuori dalla prigionia del fuori, cioè dell’esteriorità e della produttività.
Ci costringe, come collettività, ad uscire dalla nostra limitata prospettiva, sprezzante, miope, monolaterale e, come pertiene a un virus, ci costringe a dar spazio alle molte parti di noi, che noi quotidianamente ignoriamo, se non rifiutiamo.
Come tutti possiamo osservare, di recente niente ha bloccato l’avanzare ottuso e imperterrito dell’inquinamento e del logoramento del nostro pianeta in modo tanto efficace come il Covid19, e così come ciò ha momentaneamente arrestato l’inquinamento atmosferico e dell’intero ecosistema, così ha momentaneamente arrestato l’inquinamento psicologico da cui tutti siamo affetti. L’inquinamento del fare senza riflettere, del produrre senza desiderio, di agire per avere e non per essere, al massimo apparire.
Paradossalmente ora che siamo rinchiusi in casa notiamo l’esistenza dei vicini di casa, di chi sta appena fuori dalla nostra abitazione, ci rapportiamo con loro suonando insieme chitarre, flauti, pentole e altro ancora. Possibile che si debba arrivare a tanto per accorgerci dell’esistenza di chi ci abita di fronte? Per tornare a guardarci negli occhi? Per tornare quantomeno a parlare di una popolazione unita in una speranza, quella per cui “tutto andrà bene”?
Paradossalmente, questa epidemia ci consente di stare, volente o nolente, in prolungato contatto con la nostra famiglia, che è la nostra intimità, il nostro spazio relazionale e al contempo interiore. Siamo intimamente (sia nella concordia che nel conflitto) in contatto con i nostri cari ma allo stesso tempo ci sentiamo soli, tagliati fuori (o dentro che dir si voglia) dal mondo esterno, dalla nostra routine quotidiana.
Questa “reclusione casalinga” quindi ci pone, sempre paradossalmente, altre due questioni: quella della relazione e quella della solitudine.
La solitudine è una questione relazionale e pubblica. Eppure viene letta principalmente come se fosse un problema individuale, privato.
Da una parte non sappiamo più rapportarci con la nostra solitudine, che inevitabilmente porta ad un più profondo incontro con noi stessi (Jung sosteneva che non ci sia cosa più spaventante nella vita di un uomo dell’incontro con se stesso) e in tutto ciò fuggiamo da essa attraverso i social, che grazie all’essere sempre connessi, ci danno l’illusione di essere davvero collegati a qualcun altro, affogandoci di immagini e di likes, come il Covid19 ci soffoca biologicamente; dall’altra parte abbiamo sempre più difficoltà a rapportarci con l’Altro, quell’altro che è fuori di me ma al contempo è dentro di me. La relazione è ciò che mette in contatto un individuo con un altro e l’individuo con la collettività.
Questa nostra quarantena e il rischio di contagio a cui ognuno di noi espone gli altri andando in giro, ci ricordano che siamo esseri interconnessi, che siamo parte di un qualcosa di più grande, che dobbiamo perseguire un bene comune oltre a quello personale, al contrario di ciò che più o meno implicitamente ci viene insegnato quotidianamente dalla società del consumo e del profitto, ovvero di pensare a sé, l’individualismo assoluto. L’altro in questo tipo di società esiste solo in funzione di un mio godimento narcisistico, un piacevole specchio che mi restituisce l’immagine di come vorrei apparire.
Ma, ribadisco, ciò che abbiamo di più caro, ciò che puo’ darci la forza di svegliarci al mattino, ciò per cui possiamo morire felici di aver vissuto una vita piena, non si trova fuori ma è dentro di noi, in quella non-attività che crea il significato dell’esistere.
E, come praticamente ogni orientamento alla psicologia testimonia, la sofferenza psichica, l’aridità, la disperazione consistono nella povertà di significato.
In questo difficile momento, tutto ciò che è assente come lo stare insieme, uscire, stringerci la mano, chiacchierare, esplorare, vivere il mondo, contribuire alla creazione di un nuovo modo di stare al mondo, ha la possibilità di acquisire una più forte, matura e profonda presenza dentro ognuno di noi, dal momento che l’assenza è presenza.
Ciò che è perennemente presente e disponibile nella nostra vita, diventa veramente presente in noi quando è assente fuori, e, per poterlo vivere e ritrovare, siamo costretti a crearlo dentro di noi.
Allora questo qualcosa è presente davvero nella nostra vita, e non ci attraversa senza lasciar nessuna traccia, nessun significato.
Come diceva il famosissimo scrittore Marcel Proust:
“L’assenza è, per colui che ama, la più sicura, la più efficace, la più viva, la più indistruttibile, la più fedele delle presenze”.
Quindi questo è, nonostante tutte le difficoltà e le sofferenze di questo periodo, il mio invito: impariamo per come possibile ad “amare”, cioè ad accogliere e ad arricchirci della la necessità psicologica di ciò che si pone a noi come inderogabile, a ciò che ci costringe a cambiare, a trasformarci.
Sarà questo il momento in cui ci renderemo conto della necessità di ritrovare la nostra interiorità? Di cercare e creare un significato al nostro essere al mondo? Di dar valore anche a ciò che non ha necessariamente un valore economico? Di essere oltre che avere?